Commercio equo

Che si tratti di magliette, banane o rose, in Svizzera il commercio equo prospera più che in qualsiasi altro paese europeo. Il consumatore elvetico spende, per esempio, circa 4 volte di più di quello tedesco per acquisti di questo genere. Da tempo, non sono solo le organizzazioni “classiche” del commercio equo che cercano di aprire i mercati del nord ai piccoli e piccolissimi produttori del sud. In sempre più i settori, si promuovono iniziative e marchi che si impegnano per realizzare questo ideale e/o esigono standard minimi per i lavoratori dei paesi in via di sviluppo.

I prodotti equi e solidali sono sempre di più, e per i consumatori diventa difficile districarsi fra gli svariati marchi e marche, perché “commercio equo” non è un marchio protetto e ne può far uso chiunque. Inoltre, finora non esistono criteri generalmente riconosciuti che permettano di definire chiaramente il commercio equo.
Anche le concezioni di base del “fair-trade” sono diverse.
MAX HAVELAAR, per esempio, certifica i singoli prodotti, mentre GEBANA SA cerca piuttosto di crearsi un profilo di mercato.
Tuttavia, esistono alcuni parametri che permettono di giudicare il commercio equo “classico”. Così, assume un ruolo decisivo l’impegno per aprire i nostri mercati ai piccoli produttori o alle comunità di produttori dei paesi in via di sviluppo, che altrimenti, confrontati alla concorrenza delle multinazionali, non avrebbero nessuna chance.

Commercio etico
Il commercio “etico” si basa su codici di condotta o criteri sociali, che definiscono chiaramente non solo i diritti dei lavoratori, ma anche come si devono effettuare i controlli. Esemplare è l’industria dell’abbigliamento. Nel settore tessile qualcosa è cambiato soprattutto da quando la Campagna Clean Clothes ha sensibilizzato l’opinione pubblica sulle condizioni d’impiego in parte indegne dei lavoratori tessili nei paesi del Terzo Mondo.

L’esempio dei fiori
I fiori solidali sono un esempio a sé di una storia di successo. Grossisti come la Migros o importatori come l’Agro-Tropic SA, alla quale appartengono anche i negozi “Blume 3000”, in collaborazione con organizzazioni non governative e sindacati internazionali, in relativamente poco tempo hanno migliorato notevolmente le condizioni di lavoro in diverse coltivazioni dei paesi in via di sviluppo. Da allora la quota di mercato dei fiori solidali è in costante crescita, anche se non sempre il marchio è segnalato ai consumatori. Questo perché non tutti i dettaglianti contraddistinguono i fiori con il relativo marchio, in parte anche perché temono un’eccessiva confusione di marchi.

Processi da avviare in loco
Spesso gli standard del commercio equo e etico sono molto diversi. Così, per esempio, nel commercio etico ci sono marchi o produttori, che si limitano a vietare il lavoro infantile forzato, mentre altri stabiliscono un ampio catalogo di condizioni di lavoro. Confrontate alle condizioni applicate in Europa occidentale, anche queste offrono però solo un minimo di criteri sociali. Un esempio è il lavoro infantile: nei paesi in via di sviluppo, le famiglie devono generalmente poter contare anche sul lavoro di bambini e giovani nelle attività artigianali o agricole; un divieto totale contribuirebbe a portare ancora più miseria. Gli specialisti del commercio solidale sottolineano che le aspettative e le norme dei paesi industriali non possono essere semplicemente importate nei paesi in via di sviluppo. Piuttosto, gli sforzi per un commercio equo e per condizioni di lavoro rispettose dell’essere umano vanno intesi come un processo da realizzare in collaborazione con i partner del sud.

Ci vogliono controlli
Criteri per migliori condizioni di lavoro non bastano, ci vogliono anche dei controlli. Nel commercio equo classico o per le organizzazioni di marchio, spesso molto vicine alle opere assistenziali, si può ragionevolmente supporre che i criteri etici e sociali siano effettivamente rispettati. Ciò è molto più difficile nel caso delle ditte che gravitano attorno al commercio “etico”. Una bella etichetta “fair-trade” non basta a garantire un vero commercio equo. Per essere credibili sono decisivi i controlli esterni regolari. Mentre certificazioni e istanze di controllo funzionano molto bene per gli alimenti biologici, nel campo dei criteri sociali, in Svizzera sono ancora in fase di realizzazione. Per essere sicuri che un marchio di commercio equo lo sia per davvero è più che auspicabile il coinvolgimento di organizzazioni non governative e sindacati indipendenti dall’economia.

Criteri fondamentali per un commercio equo e solidale


  • Prezzi o salari, che coprano i costi di produzione dei fabbricanti e che permettano un reddito minimo vitale secondo parametri locali.
  • Il raccolto o la produzione vengono in parte prefinanziati o si facilita l’accesso a crediti favorevoli.
  • La qualità dei prodotti deve soddisfare il mercato occidentale.
  • Rapporti commerciali e stabili a lungo termine.
  • Garanzia di standard sociali minimi, secondo le Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro. E’ importante soprattutto dove si impiegano salariati (per es. piantagioni, fabbriche). Fra l’altro, concerne la libertà sindacale, il divieto del lavoro forzato e abusivo dei bambini, nessuna discriminazione razziale, sessuale o religiosa, la salute e la sicurezza degli impiegati.
  • Graduale conversione a una produzione rispettosa dell’ambiente.
  • Informazione e amministrazione trasparenti.
  • Il rispetto dei criteri del commercio equo deve essere regolarmente giudicato da organi di controllo.

AllianceSud

Dichiarazione di Berna

22 settembre 2009